In Gloria

«Laureata con 110, ma costretta ad andare via.»
Lo afferma la legale di famiglia della ragazza padovana morta nel rogo di Londra. 
Il dolore del padre è comprensibile: «È colpa dello Stato che costringe i nostri figli a scappare all’estero per cercare un lavoro»
Gloria era in una capitale mondiale, col fidanzato, stava vivendo una specie di sogno, che le apriva speranze, la testa, possibilità professionali, a due ore di volo da casa. Postava le foto dello skyline notturno della metropoli, entusiasta. Così la racconta, chi la conosceva. 

Costretta?
Escludiamo, per rispetto, il dolore della famiglia. Ma la legale cosa vuole fare intendere? Che non trovare lavoro sottocasa ti strappa da mamma?
Qualcos'altro l'ha strappata da mamma, dagli affetti, dal sogno, dalla vita stessa. Un palazzo lastricato di plastica, brutto, insicuro. Un palazzo dove vivevano i poveri, guarda caso. Il tema non è la distanza chilometrica, ma quella sociale. L'ingiustizia, come sempre, alligna nella struttura profonda delle questioni, delle cose, perfino dei palazzi. E per colmare quell'ingiustizia bisogna liberarsi dall'idea che la battaglia si combatte sottocasa. O che si debba restare lì, comodi, protetti, per rinunciare, per non combatterla. Capita che l'ingiustizia, alla fine, ti venga a prendere.
Ogni buon racconto vive di discorsi diretti efficaci, tipo questi:

«È stata con noi solo sette giorni, era la mia compagna di scrivania. Era al settimo cielo e piena di energia.»

«I problemi ci sono perché hanno tagliato i fondi, per via dell’austerity.»

«Grazie di tutto, mamma, sto morendo, addio…»

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