R'Omero.



Strano, da stamattina sentivo nell'aria questa cosa della paura come elemento politico, ci ho scritto un post. Se ne stava andando George Romero. Lui, Wes Craven, Tobe Hooper, John Carpenter, Joe Dante; la loro era la generazione del '68, della guerra in Vietnam, che sdoganò l'orrore nell'immaginario, sottraendo la guerra dal racconto mistico, agiografico, edulcorato e restituendola alla sua dimensione più consona: l'inferno irrazionale. Ognuno a suo modo. Romero, per la sua quota parte, riconcepì la metafora dello zombie come quintessenza dell'alienato, l'essere nel limbo, nel crocevia tra vita e morte. Non più i fantasmi, i lontani tabù ancestrali, la paura moderna ti chiama in causa anima e corpo, assediate dai corpi senz'anima intorno. I ragazzi degli anni Ottanta raccolsero quell'eredità immaginifica, e la coltivarono, incapaci di innamorarsi di nuovi ideali, ripiegati su se stessi da un consumismo dilagante, edonista, desiderosi di guardarsi dentro per capire come erano fatti, guardarsi dentro le viscere come percorso di senso, di riappropriazione. Apparentemente solo estetica. Ma in realtà l'anticonformismo splatter sperimentò, osò, come riposta al conformismo sociale. Gli zombi erano la diversità in movimento, ciondolante e rantolante, in flusso concentrico, come la cattiva coscienza. Nel primo film, alla fine, i bianchi sparano al protagonista nero, credendolo uno zombie. In seguito, il mito smaschera l'idiozia dei militari, poi l'incubo si trasferisce nella mall, il grande ipermercato, con i non contaminati a dover fronteggiare i morti viventi del consumismo. Col passare dei decenni, il Maestro ci capì poco, non riuscì ad aggiornare il tema a dovere, non trovando la chiave ultima, moderna. L'uomo in rete. Lo zombie definitivo. Comunque sia, un rantolo di umana e disumana gratitudine verso un grande per davvero, uno dei pochi.

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