Visione


Ci fosse ancora [duel], la rivista di Gianni Canova, ne avrebbe parlato a lungo, e come si deve. Il filone sci-fi di Steven Spielberg, come sempre, cattura il segmento di tempo in cui viviamo, attraverso lo sguardo preciso del regista. Dall'ottimismo universalista anni Settanta di "Incontri ravvicinati", a quello fiabesco di "Et" e poi di "A.I.", che sembravano indicarci la via infantile allo stupore dell'alterità tecnologica, conservando il cuore. Poi, nel nuovo millennio, il cammino più complesso di "Minority Report", l'affacciarsi del conflitto interno al sistema tecnologico, fino all'esito cupo e disperato del meraviglioso "La guerra dei mondi".
"Ready Player One" è un'esondazione di tutto, come lo è il momento in cui viviamo. Sembra un videogioco, anzi lo È esplicitamente, a suo modo è un film radicalissimo, e MOLTO politico. In Oasis, la matrice della storia, ci ho trovato l'essenza stessa del capitalismo, di cui Spielberg cerca di recuperare fondamenta etiche ("Non può diventare lo strumento di uno solo"). Si è accorto di quanto sta avvenendo nella cosiddetta rivoluzione tecnologica in cui siamo immersi, cosa determina il controllo totalitario del virtuale che muta la realtà stessa. C'è tutto: dalla fine del lavoro, l'umanità persa; la disperata lotta alla ricerca di un ruolo, prima che di un senso, nel deserto umano lasciato dal virtuale; la criptomoneta; la volatilità del mercato finanziario; l'avatar di noi stessi con tutte le sue insidie e potenzialità, ecc. ecc. Spielberg suggerisce che la lotta andrà condotta dall'interno. Non la sfida degli hacker che colpiscono da fuori, ma quella di militanti di nuovo conio che vanno a giocarsi la partita fino in fondo, conoscendo ancora più dell'avversario l'intima natura di quel che combattono, la multinazionale tentacolare IOI. Le culture radicali, anche il ribellismo da centri sociali, e le diverse marginalità si saldano alla competenza sviluppata grazie all'intero serbatoio del pop moderno o modernista: dai videogiochi Atari ai cartoni animati giapponesi, passando per il potere taumaturgico dell'horror, che custodisce nostri meccanismi reconditi. Come nelle migliori narrazioni di questo stampo, la citazione non è citazionismo, ma strumento operativo. Quelli della mia generazione godono come ricci, a coglierle tutte. Ma è solo un inside joke. Se usciti di lì non ci si pone la vera domanda: "Chi è quell'Halliday anziano? Cosa rappresenta?"; e non si capisce cosa significa "militanza", oggi, non si riuscirà mai ad abbattere lo schermo protettivo, l'incantesimo, il campo di forza eretto dal profitto e dal monopolio aziendale. Non spoilero, ma alla fine è tutta una vicenda di contratti. Per Spielberg deve vincere un 'noi', un clan dei buoni. Utopia un po' debole, intercapitalistica, a dispetto della titanica distopia. Ma si capisce che il suo pensiero di fondo è più preoccupato, e il prefinale, come spesso capita, custodisce il finale vero. L'uomo è Dio e artefice dei propri destini, in lotta con se stesso, sempre. Serve una visione, ancora più ampia di un 3d.

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