L'isola in cui

Per stroncare il nipotino gli ho letto "Le avventure di Sindibad il marinaio". Lui è crollato alla terza pagina, io sono andato avanti. Che viaggio, in tutti i sensi… Non solo nel fantasmagorico, ma in un tempo in cui il mondo arabo era scambio, apertura, contaminazione, stupore, erotismo. Le merci erano materiche, implicavano trasporti, incontri. L'avventura araba - a differenza di quella occidentale che è ricerca di radici perdute, nel mito di Ulisse - portava come premio ricchezze e fasti.

L'innesco dell'avventura successiva stava proprio nel non fermarsi, nel non sedersi mai. Come se oggi, gli emiri si mettessero in continua discussione, ripartendo ogni volta daccapo nel percorso del loro accumulo, anziché accontentarsi di fantastiliardi, ori, harem, squadre sportive, macchinoni, strategie di orrore planetario.
La cultura - nel caso delle "Mille e una notte" stratificazione di leggende orali, come la nostra Odissea - è il diaframma di tutto il mondo, in ogni epoca. I fondamentali sono sempre gli stessi. Leggendo di quei viaggi, Sindibad li racconta a un umile fattorino, mi veniva in mente una storia di mafia: il boss e il portapizze. O una storia di fantascienza: il vecchio pilota d'astronavi rivolto al cyborg adolescente, che deve capire le cose umane.
A un certo punto, lo stupore puro.
Il "Terzo viaggio" di Sindibad lo porta nell'isola dei ciclopi, dove naufragano, finendo nell'antro di un gigante con un occhio solo che divora l'equipaggio. I sopravvissuti gli infilzano l'occhio con bastoni arroventati, e scappano sulle zattere, schivando le pietrate del gigante cieco e furibondo, che inveisce dalla riva rocciosa.
Sindibad come Ulisse, la stessa avventura, la stessa isola, oriente e occidente uniti in un frattale di spazio-tempo nell'immaginario delle rotte condivise.
La lezione?
Mente e porti aperti, sempre e per sempre.

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