Vanessa

 


Vanessa, l'ultimo nome, l'ultima vita stroncata.


Sì, il solito dibattito del dopo: dove stavano le istituzioni, le forze dell'ordine, perché nessuno ha fatto niente, eccetera. Però, smettiamola di essere ipocriti. Ognuno di noi ha sentito di persona almeno un paio di casi che potenzialmente potevano sfociare in dramma - alla nostra età in relazione alle famiglie che si sfasciano - ma a volte ci capita di incrociare una lite tra coppie di ragazzini, in cui lui urla esasperato e sembra pronto alla violenza, lei subisce rassegnata. Quante volte ci è capitato di sfiorare il tema, di sentirne il vento nero. Ma non possiamo dirci "dov'eravamo noi, quando". Certo, va fatto il possibile, sempre, ma non c'è istituzione che tenga, legge risolutiva, né forza dell'ordine, né la possibilità di intervento perenne, collettivo o personale. Il mostro maschile nasce all'interno di una cultura, di un'epoca. Dilaga una violenza strisciante, insita nei rapporti sociali e interpersonali, in un cambio di paradigma delle dinamiche psicologiche, che è una rivoluzione invisibile non gestita. Qualcuno lo chiama il passaggio dall'era di Edipo a quella di Narciso (Gustavo Pietropolli Charmet). La grammatica degli affetti, la sudditanza psicologica, la manipolazione, il tema del possesso, allignano lì, in quel campo di battaglia.

Ma chi la sta combattendo, questa battaglia?

Ci vorrebbe uno studio comparato e approfondito sui femminicidi, la psicologia di lei, quella di lui. Ma soprattutto servirebbe una preparazione base di tutti, quello sì. Sarebbe un compito delle istituzioni che invece, prima del covid, stavano smantellando i consultori, le strutture base, i presidi territoriali. E dopo il covid non so quanto avranno capito della loro stessa crisi. Serve aiuto nel formarsi come cittadini, come persone, come genitori. Nessuno se la cava da solo. Questo compito, oggi, lo svolgono i device, la nostra psiche è una lista di meme, di post it di enunciazioni, senza costrutto. L'assassino di Vanessa abbassava sempre lo sguardo sul cellulare, quando qualcuno lo incrociava. Ogni centrale educativa sembra tramontata, insieme alla credibilità della dimensione pubblica dell'esistenza. La famiglia è lì, al centro del vortice. Un tale vuoto chiede una risposta generale. Non puoi lasciare la società incancrenita da questa dinamica atroce di capitale, tutti interconnessi, pompati a mille da mille cose, tutti oggettivizzati, profilati solo in quanto consumatori, tutti indignati contro il nemico pubblico, e tutti emotivamente soli. Il "Divide et impera", questo subiamo, non mi stancherò mai di parlare del mostro fuori. Come si può sviluppare un'emotività strutturata, se nessuno ti dà più gli strumenti? Ognuno, indole a parte, è una tabula rasa.

Una ragazza sul selciato, abbattuta davanti agli amici, ci parla di uno sfilacciamento drammatico. Come può un uomo maturare un simile senso del possesso, se non ha patologizzato il rapporto con sua madre, con un padre emotivamente assente? Arriva a farlo non solo se percepisce di non avere ostacoli e freni esterni, ma perché nessuno ne ha mai costruito uno dentro di lui. Noi maschi siamo tutti bombe potenziali, tutti, inutile raccontarsela, dobbiamo andare a sfidare quella frase Nietzsche: "Quando guardi a lungo nell'abisso, l'abisso ti guarda dentro."

La sfida è a quel livello, atroce, scomodissimo, cartina tornasole dell'intera questione contemporanea, dai talebani al poujadismo, fino a entrare nelle famiglie, spesso fortilizi di carta a difesa di cause sbagliate, soprattutto una difesa arcaica e astratta della loro funzione.

In un mondo sempre più multicentrico, liquido, nessun confine può essere baluardo, tutto deve diventare diaframma.

La "tenuta" va strutturata in un profondo.

Vanessa, solo l'ultima. Studiamoli per bene, paragoniamo i casi, i profili.

Scopriremo che - nel fondo - sono simili tra loro, questi uomini che uccidono le donne, e no, non sono mostri.

Sono nostri. 

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