Nino, gli altri

Volevo parlare del film che ho visto domenica. Ha vinto l’oscar. È ambientato in quattro location: appartamento + solaio, teatro, sede polizia politica, un parco cittadino. Soprattutto, appartamento e solaio. La scelta dei luoghi. Il luogo DDR. Dove lo spazio è tempo compresso. Dove non c’è aria. Tutto scorre sottotraccia, e crea suspance. La suspance del sopravvivere. Anzi del sottovivere. “Le vite degli altri” è davvero scritto bene, con una regia precisa, un robusto impianto drammaturgico e una manciata di attori come non se ne vedevano da anni. Soprattutto la spia, che squarcia lo schermo senza battere ciglio. Poi c’è un surplus, per chi è stato/è/sarà simpatizzante di idee anche solo prossime a quelle che hanno portato a quel delirio. Ci si interroga davvero su tante cose, il film ti svuota, ti chiama in causa. Poi, però, mi interrogo anche su un altro aspetto. Quanto sarà costato? Io credo poco o niente. Perché leggo sul “Venerdì” un’intervista a Verdone. Si dice che il cinema tedesco riceve dallo stato 250 milioni di euro l’anno contro i 79 italiani, e che il problema sta lì.
Vado alla fine dell’intervista. Chiedono a Verdone come sarà la sua prossima pellicola. “Riprenderò tre dei personaggi storici dei miei film a episodi e li racconterò invecchiati, con moglie e figli. Rivedrete Furio e Mimmo di ‘Bianco Rosso e Verdone’ e Ivano il cafone di ‘Viaggi di Nozze’. Perché la commedia è il traino del cinema italiano, diciamolo.”

Con tutto il rispetto, ecco dove sta il problema.

Insomma, volevo parlare di cinema. Poi, però, ieri è morto Nino.

Tutto nasce da una cassa di albicocche. Eravamo in federazione, d’estate. Si faceva una riunione in giardino. Arrivano questi frutti squisiti e chiedo da dove. Mi dicono dalla Val Tidone, c’è una comunità e mi spiegano. Telefono, ci vado. Era il Novantadue. Da allora non ho più smesso, fino al mio espatrio ligure.
Era una grossa casa coloniale ristrutturata dai ragazzi, con stalla, camino, camerate, laboratori artigiani, terreni coltivati. Un posto caldo, accogliente e pieno di sofferenza.
Nino aveva questo sorriso largo, infinito, occhi brillanti e guance rosse. Mi racconta la sua storia di operaio, sindacalista e poi sindaco comunista della bassa lodigiana. Mi racconta del suo vecchio parroco: Don Leandro Rossi. Un prete rosso, si sarebbe detto un tempo. Tre lauree, libri sui vangeli apocrifi e missione di povertà. Alla faccia di Guareschi, diventano amici. Ormai sessantenne, Nino si appresta a finire il mandato. In piazza, Leandro gli si avvicina, gli batte la spalla e gli dice, “Ho una comunità nel piacentino. Te l’affido”. “Perché no?”, risponde Nino.
E parte. Tornerà a casa dalla moglie solo nei fine settimana.
Nel suo ufficetto pieno di libri, nella parlata con le parole chiave in dialetto, c’è la parabola di un piccolo grande uomo. Che si è conquistato i congiuntivi uno alla volta, faticando da solo. Che si è costruito passo passo la dignità, la consapevolezza e l’autorevolezza. E che decide di spenderle per gli altri. In toto.
Mi racconta le storie dei ragazzi, uno per uno. Storie di bassa padana, abbandono, sconforto, vita dura. Ignoranza, abisso, eroina anni Settanta e nuove droghe dei Novanta. Alcol e AIDS. Mi spiega la loro filosofia. Il recupero basato su cultura e lavoro. Niente preghierine, niente coercizione. Qui si discute, si lavora e si segue un programma. Ci si da una regola. Esiste un tappeto di cose. Dal commento dei giornali, alla distribuzione delle sigarette, allo stabilire i turni per le varie mansioni. Se ti va, ti giochi una carta. Se non ti va, quella è la porta. Mi invita a cena. Conosco i ragazzi. Antonello, era stato il grafico di Moschino. Ora è uno scheletro risucchiato dalla malattia. Albino. Da piccolo, gli scappa di mano il fratellino che gli avevano affidato. Quello scivola in un acquitrigno e muore. Poi resta orfano. In orfanotrofio cava un occhio a un compagno durante una rissa a tavola. Fin da ragazzino si droga, beve, spaccia. Vuole uscirne, sta per decidere. Con l’eroina chiude, con l’alcol no. Una sera, ubriaco, investe un bambino e lo uccide. Si trattava del figlio di un mafioso trasferito al nord. Lo cercano per anni, lo trovano. Lo pestano fino a crederlo morto. Nino lo accoglie così, lo cura e lo nasconde. Almeno una volta al mese arriva una chiamata anonima che chiede se un certo Albino è lì.
Vecchio Nino. Era a capotavola, e li guardava tutti con quegli occhi da sakem indiano. Gli parlavi, ti ascoltava, ma intanto scrutava i ragazzi. Se uno faceva la cazzata il suo sorriso si trasformava nell’espressione più carismatica e severa che abbia mai visto. E poi tornava a te, sorridendo.
A tutti quelli che hai portato lassù sei rimasto impresso. Come a tutti quelli che ti ho portato io. Sopravvivrai nel cuore di tanta gente. Nel mio, nella nicchia degli affetti più intimi.
Poi c’è un surplus, per chi è stato/è/sarà simpatizzante di idee anche solo prossime a quelle che ti hanno portato a quella scelta coraggiosa. Ci si interroga davvero su tante cose. Nino ti riempiva, ti chiamava in causa.
I luoghi di Nino.
Ti ho visto per l’ultima volta in dicembre. Stavi già male. Quella casina buia, gelida, nella neve, nella nebbia, nel traffico. Una stufetta inutile. Ho provato un senso di rabbia, di ingiustizia. Il mio sorriso è tirato. Il tuo stanco di combattere.


In questo paese di merda, non è giusto che un uomo così, se ne vada così.

Hai raggiunto Antonello. E Daniele, che si era impiccato a un albero di albicocche, in ginocchio. E i tanti altri che ci siamo lasciati dietro, nel solco del nostro legame.

Albicocche.

Riposa in pace, amico mio.

Io cercherò Albino.


Commenti

  1. letto senza prendere fiato.

    quando la vita te lo toglie e ti fa capire quanto vale viverla così. quanto ti fa vergognare e pensare di vivere in uno stato così.


    grazie lorenzo.

    buon viaggio nino!

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  2. a volte capita di leggere un post e sentire la speranza farsi più forte, e sentire che potremmo farcela che forse siamo la maggioranza quelli che guardano "all'altro".

    ciao, buona vita

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  3. Sì, Truth, anch'io ho pensato quelle due cose. E anch'io, a letto, non ho preso fiato stanotte.


    Anna, mi fa piacere suscitare casuali speranze. Ma temo di no. Nino si è spento nella minoranza.


    Dopo aver davvero vissuto nel cammino del Cristo a cui non credeva.


    Mi fa incazzare che gli avevo promesso di portargli il bambino. Avrei voluto il suo tocco.


    Ognuno ha il suo Papa.

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  4. Ho solo sfiorato, per mia sfortuna, la frequentazione di quella comunità, ma di Nino Aspetti ho un ricorso indelebile di un sorriso che ti entrava dentro. E rivedendo questa fotografia, non eri l'unico , maledizione, ad avere il sorriso tirato.

    Mi ha colpito del tuo post il riferimento all'ufficietto pieno di libri.

    Libri che rivedo anche in questa foto, spuntare da ogni angolo della stanza.

    Ricordi che volano indietro, a mio zio comunista, un linguaggio modesto, una casa modesta dalla quale però spuntavano libri da tutte le parti: come fossero trofei sottratti ai piu abbienti, quelli che avevano potuto studiare.

    Di tutto quel enorme movimento mondiale, spesso catalogato positivamente o molto più spesso negativamente, in slogan di poche righe banali, restano le vite dei uomini come Nino Aspetti. A cui un post di un suo amico su un blog ha reso onore.

    Non basta, ma forse Nino sarà contento lo stesso.



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  5. No, maledizione. La frase sull'altro sorriso se l'era mangiata la foto.

    Recuperata.

    Le tue frasi, invece, se le mangia un post di un tuo amico su un blog.

    A cui hai reso onore.


    ;)

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  6. mi son commosso e al tempo stesso pentito di non averlo frequentato. ero a due passi, maledizione.

    i congiuntivi strappati a fatica di Nino, i libri dello zio di Bado, quella autorevolezza conquistata senza avere il sorriso arrogante dei primi della classe.

    e' quello che ci rimane da tramandare in un mondo di merda.

    i nonni immaginati sono importanti a volte come quelli reali. comincia a raccontare, Lorenzo. lo fai bene

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  7. mi hai fatto commuovere.

    un abbraccio a te, e un pensiero a nino.

    laura

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  8. Io non so come tu riesca sempre a commuovermi fino alle lacrime.

    Questo post è un pugno nello stomaco. E' tenerezza, è speranza, è rassegnazione, è gioia, è dolore.

    E' amore.

    Nino era tutto questo.

    E tu, sì, potresti proprio essere suo figlio.

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  9. Mi hai riportato indietro di 15 anni alla mia esperienza comunitaria con i tossici della periferia romana.

    Io non avevo Nino come riferimento ma un prete di strada. Le storie, le facce, gli sguardi, la rabbia, le piccole furbizie, le occasioni mancate, il destino, sono simili.

    Bel ricordo, grazie per averlo condiviso.

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  10. ho letto e riletto.

    ora torno alla mia vita.

    ma non è più come prima questa giornata.

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  11. Sì, Teo, il racconto...


    Una volta l'abbiamo portato a Genova a mangiare il pesce. Per Nino era un esperimento azzardato. Era vestito come Lenin e sembrava lui un pesce, fuor d'acqua. No, Nino era da minestrone e surbìt. Vino rosso e salumi. Però l'ha mangiato, dicendo la sua con gli occhi, ma l'ha mangiato.

    Ogni volta che parlava di Don Leandro gli si accendeva una luce particolare. Aveva migliaia di aneddoti e, come sempre, quando ci abbandona uno come lui, l'annedotica è ciò che manca di più. Una volta partecipai a una trasmissione televisiva con Don Leandro. Era vecchio, diabetico e grassisimo, assomigliava un po' a Jader Jacobelli. Mentre parlavano gli altri - fascistelli e proibizionisti vari - lui dormiva. Io ero in imbarazzo. Non ero in confidenza, ma mi veniva di dargli di gomito. Poi tocca a lui. Si sveglia e risponde punto su punto a tutti gli interventi precedenti. Resto a bocca aperta.

    Anche Nino l'ho portato in tivù, una volta, insieme a una delegazione dei ragazzi. Lui era vestito come Lenin, e io ero orgoglioso, come se in quegli studi di provincia stessimo assaltando il palazzo d'inverno.


    Nino era la bellezza dell'inverno.


    Ricordo il viaggio di ritorno da Genova, nella nebbia più fitta che avessi mai visto. Tranquilli, complici.

    Mi raccontava spesso di quella volta a San Patrignano. Erano stati invitati lui e Leandro. All'ingresso c'erano due pantere nere, legate a una guardiola. Sì, proprio così. Ho appena letto un'intervista a Saviano, sul paese che non viene raccontato da troppo tempo.

    A San Patrignano c'erano le pantere nere all'ingresso, sappiàtelo. Era al tempo del primo governo Berlusconi. Vengono radunati in mensa. Decine di operatori, insieme a centinaia di utenti della comunità. Sul fondo, un palco in stile mussoliniano. Con schierato tutto lo stato maggiore di Alleanza Nazionale e di Forza Italia, che dominava la sala coi tavoli. A un certo punto si alzano tutti. Entra lui, Vincenzo Muccioli. Tutti i ragazzi in piedi, come a scuola, in silenzio. Lui si posiziona al centro del palco, batte le mani due volte e tutti si siedono. Nino e Don Leandro si guardano in faccia. Invece di riaccomodarsi si avviano verso l'uscita. Nino rinfila il cappello da Lenin e se ne vanno.


    In culo alle pantere.

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  12. Mi viene da dire che non erano le pantere all'esterno il problema di San Patrignano, ma quelle all'interno....

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  13. Tutte nere, e masticone, e infide, e complottarde.


    Diverse da quell'altra, di cui abbiamo parlato anche qui, che a volte appare nelle campagne, ai confini delle città.


    Che a un certo punto tutti ne parlano, ma non la prendi mai.


    Mai.

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  14. bello il racconto bello.

    brutto il lupo (metaforico) che poi qui e' una pantera e un modo di fare.

    ma una favola senza il lupo non e' una favola.

    rabbrividisco.

    mi emoziono.

    cresco.

    perche' si cresce ancora ascoltando queste storie.

    chapeau a nino, one more time.

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  15. potrei raccontarti delle cose davvero raccapriccianti su san patrignano.

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  16. Parti, lagrrr. Ascoltiamo.

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