Il fordismo


Ieri sera ho rivisto "I cavalieri del nord ovest" (She wore a yellow ribbon, 1949). Per la trama, rimando al link.
Ad ogni stagione della vita John Ford parla in modo diverso. Ogni volta un particolare in più, un elemento che ti si incastra in quella regione dello spirito dove albergano le cose di maggior valore. Questo è un film sull'esercito, ambito a me così estraneo che - negli anni in cui vidi per la prima volta la pellicola - rifiutai, optando per il servizio civile. Ma l'esercito di John Ford non è il luogo dell'imposizione coercitiva di una dinamica sociale. L'esercito di John Ford è lo specchio, è affresco non foto deformante, ha un suo "assoluto" umano. Si tratta del crocevia di uno spirito del tempo, cerniera tra il duro e onesto antico codice cavalleresco e le accelerazioni del mondo che cambia, a cui il regista pretende di dare maestosa sintesi. E ci riesce, usando la Monument Valley come tempio a cielo aperto di questa liturgia infinita. Ogni scena del film ne contiene altre tre o quattro accennate o implicite, e ognuna di queste uno spicchio di umanità. Come la compagnia di giro dei suoi attori, che articolano un mosaico infito di sguardi, controsguardi, battute, rimandi. 
Il vecchio sergente nasconde da anni una bottiglia di torcibudella nella giara, all'ingresso della baracca del suo superiore, e quando conversa col capitano Nathan fuori campo, tira un sorso di nascosto. Nathan arriva e gli fiuta l'alito.
"… Mi chiedo dove la nascondi!"
La chiosa di un dialogo serrato ed efficace, che dovrebbe essere memorizzato da chiunque pretenda di scrivere per mestiere.
Nathan andrà in pensione poco prima del sergente, mancano cinque giorni sul calendario. Questo incastro temporale tra i due anziani, sarà la molla temporale del film, il count-down verrà cadenzato fino all'ultimo minuto, utilizzando nel finale un orologio anch'esso assurto a simbolo: un oggetto fra i protagonisti. Come un nastro giallo, come un fazzoletto passato di mano in mano, come un paio di occhiali estratto con una punta d'imbarazzo. Ma nell'umanesimo il tempo non è quello delle lancette, non crea tensione-in-sé come accade oggi nei serial ansiogeni, negli action-movie mozzafiato intrisi della fretta nichilista di chi non ha nulla da raccontare e ricorre a sotterfugi tecnici, che proiettano subliminalmente la testa dello spettatore sui banconi degli stores di videogame. Il tempo di John Ford è quello della vita tutta. Il film è un omaggio che si deve all'omaggio che si deve agli uomini di valore. E la ripetizione è voluta. La tensione interna, continua e stridente, porta a risse sfiorate tra giovani, risolte con sagge parole di donne e uomini più stagionati; è la tensione del passaggio generazionale. Il perimetro culturale esterno è quello mitico-mistico del sogno americano in salsa Abramo Lincoln. Il perimetro interno è la commedia dell'arte. Il tempo della tensione è sempre calmierato dal piccolo tocco di humor, in entrata o in uscita dalle scene più difficili. Il codice valoriale di John Ford non è arcaismo, o puro rimpianto. Sembra raccontarci il tipo di rincorsa che dovremmo prendere prima del balzo in avanti, il carico che dobbiamo fare prima di metterci in viaggio con la carovana. Il consiglio al giovane. Una tela su cui è ricamato il senso dell'onore, del merito, dei rapporti di forza stabiliti da un mix di regole e buon senso. Molti ci hanno letto il conservatorismo americano più retrivo, io ci leggo incontrovertibilmente Roosvelt e i frutti del new-deal. Nel film il capitalismo selvaggio fa capolino: è quello degli spregiudicati mercanti d'armi che nottetempo vendono fucili a giovani guerrieri indiani sovraeccitati. I guerrieri massacreranno i mercanti, in una scena cruenta di tortura col fuoco. Nascosti tra i cespugli, Nathan e tre dei suoi assistono. A un suo cenno, uno dei soldati sta per sparare, ma aveva travisato. L'anziano ufficiale consiglia di masticare tabacco: un viziaccio che aiuta a superare i momenti difficili. Nathan ne mastica un trancio, fissando il massacro nel riverbero del fuoco fuori campo. Solamente non può, o anche non vuole intervenire?
Le trombe suonano di continuo, sveglie, silenzi, adunate. La colonna sonora, in Ford, è una sorta di mondo a parte. Nei roboanti filmacci moderni irrompe volgare, pretende di sostituire l'azione, facendoci sobbalzare con tsunami sonori di porte che sbattono, musiche lugubri, scricchiolii, canzoni sparate a guisa di videoclip. In Ford, la musica è un fiume che scorre sotto, innerva tutto di marce, inni, tracce, rimandi. Ti accarezza da lontano, come il rumore del traffico dei simboli. E, al momento giusto, rende i silenzi potenti come un frastuono. Il silenzio dello sguardo al crepuscolo che il vecchio capitano indirizza verso la tomba della moglie. Aveva appena finito di parlarle ad alta voce, quando si materializza sulla lapide l'ombra fantasmatica di una donna. Si tratta di Olivia, la giovane figlia del maggiore che comanda il forte. Si è avvicinata con grazia, portando con sé un vaso di ciclamini: omaggio all'ufficiale che se ne andrà. Si danno la buonanotte. John Wayne resta in piedi col fiore in mano. Guarda di sottecchi la ragazza uscita di scena fuori campo, poi gli occhi puntano dall'altra parte. Depone il vaso sulla tomba.
"Una cara ragazza. Mi ricorda te da giovane…"
Alla fine del racconto, quando Nathan si congederà da Olivia, ormai promessa sposa del giovane tenentino, le falde del suo cappello copriranno alla cinepresa la natura intima, psicologica, di quel bacio.
La natura irrompe in varie forme. Il ritorno dei bisonti, illusione del riscatto pellerossa. Il guado del fiume, il carro che perde il bagaglio durante un'irta arrampicata. E quel temporale sulla comitiva girato in tempo reale, mentre un ferito viene operato sul carro delle donne. La produzione voleva fermarsi, ma il coriaceo Ford non si lasciò sfuggire la tempesta. 
La scena più evocativa del film vale come un trattato di storia. Un drapello di cavalleggeri resta coinvolto in un assalto indiano a una fattoria, arrivando un filo in ritardo. Muoiono i due coloni adulti, sopravvivono due bambini. Nathan, accorso dopo, si accerta dell'accaduto, copre i cadaveri, affida ai suoi uomini i bimbi. Gli dicono di andare da Smith, un soldato morente. Questi è appoggiato alla trave di un recinto. È anziano e chiede a Nathan di dare un encomio al giovane ufficiale che ha condotto il drapello. Questi si avvicina ai due. Ci si chiede come mai l'anziano sia un soldato semplice e quel giovane un graduato. Ecco che la messainscena generazionale si scombina e si sublima. L'anziano si affloscia sulla colonna, recitando il nome del giovane tenente, come se fosse colui che gli ha restituito la dignità finale. Il tenente, da dietro, ha la mano posata sulla spalla dell'anziano. Nathan promette al coetaneo morente che l'encomio al ragazzo ci sarà. La morte di Smith si trasforma in un quadro, una composizione che resta incisa in un attimo di pausa. E in noi.
Mi volto verso la poltrona. Vedo mia moglie coi lucciconi, e torno compiaciuto a guardare lo schermo.
Nella scena successiva, il funerale del soldato Smith. Nathan recita accorato l'orazione. Sulla bara una bandiera confederata, ripiegata. Ecco svelato l'arcano: il vecchio era un ufficiale sudista, che aveva accettato di passare tra le giubbe blu, pena la perdita del suo precedente nome, diventando "John Smith". Come dire un Mario Rossi qualsiasi. E allora si coglie la potenza della scena precedente, il perfetto dosaggio narrativo di informazioni ed emozioni. Questo è un manifesto di riconciliazione, di cucitura di tutti gli strappi sulle bandiere, il momento più alto di uno spirito, di una riflessione sui destini comuni e progressivi di una nazione, certo. Ma che nel cuore del regista era esempio di mondo intero. E il rintocco arriva. Il momento delle stelle che luccicano a prescindere, confederate o yankee, nord o sud: le stelle quando non sventolano inerti illuminano tutti. Così come la luce di Dio nelle sue sublimi rappresentazioni può scuotere l'ateo, l'esercito in chiave John Ford può commuovere una donna progressista che ha sposato un pacifista, in una tiepida serata genovese, a settant'anni dall'uscita di un film.
Stupefacente il pre-finale, in puro stile slapstick comedy, che annacqua la retorica. Siamo alle comiche. È arrivato il momento del congedo, Nathan con un trucco riesce a far vestire il sergente in abiti civili. Gli darà i soldi per ubriacarsi alla sua salute. Poi chiederà ai soldati di andarlo ad arrestare al bar. Una lunga scazzottata alcolica rende omaggio alla stagione del film muto, da cui Ford arriva. Nathan vuole internare il vecchio commilitone fino al congedo per evitargli guai in missione. Tutti recitano consapevoli la parte in questa commedia; il sergente alla fine si lascerà condurre in cella ubriaco e felice. I due uomini si sono salutati senza farlo direttamente. De visu, come ultimo gesto, Nathan aveva estratto davanti al naso del sergente la bottiglia nascosta nella giara.
"… Allora, in tutti questi anni, lei aveva sempre saputo!…", si stupisce il sergente.
E tutto torna, ogni dettaglio, ogni seme lanciato viene raccolto, perché John Ford è il più grande narratore di ogni tempo. 

Almeno, di ogni tempo della mia vita.

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Vanessa

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