Morsi.

La retorica delle banane ha una sua importanza, ma è una passerella di antirazzismo superficiale. Il 29 aprile del 1992, la questione razziale della modernità esplose a Los Angeles, dopo la sentenza sul pestaggio a Rodney King. Un'ingiustizia chiamò alla rivolta gli afro-americani, e la rivolta si trasformò in saccheggio e linciaggio, dimostrando che il problema era prima di tutto sociale, di lotta di classe. E culturale, perché il razzismo alligna nell'ignoranza, non solo della comunità razzista, ma spesso anche in quella che lo subisce. È un gioco di specchi. Il capitale moderno spappola tutto ciò che è differenza proficua, dialogo umano, per omologarlo nella merce. Troppi ghetti tutti uguali, tropo spirito tribale contrapposto, troppi idoli sportivi, troppo gangsta-rap nichilista, edonista, per non capire. Non c'è MLK, con c'è Malcom X, nei loro sguardi, non c'è la letteratura e la musica della consapevolezza: Richard Wright, Gil Scott-Heron. Non c'è il conflitto nella sua versione suo malgrado costruttiva, emancipatrice, come spinta dinamica. C'è la struttura del capitale che studia le nicchie razziali anche in base al mercato, le plasma, trasformandole in nicchie di mercato, appunto, spegnendone la capacità di evoluzione sociale, sclerotizzandole. Se passeggi tra i neri americani, per strada, lo senti il problema. Un ciondolare al ritmo della musica, un salutarsi lungo e complesso, con codici di appartenenza. E lo sguardo duro, sul punto di esplodere. Mai curioso di te. Sterling radiato a vita dal basket per opinioni razziste è una bella notizia. Ma se leggi i commenti a riguardo, è tutto un'esplodere di insulti tra "scimmie nere" da appendere al cappio e donne bianche da stuprare. Cova, sotto. Ed è una questione di vita, morte, di lavoro, uffici, bollette, code ai centri per l'impiego, o palestre con sauna e apericena da difendere, alienazione. Sta accadendo anche qui da noi, ora. Ragazzo nero, ispanico, rom, lavora in quel che resta delle mie fabbriche, nei miei magazzini, nei cantieri, ricattato, sottopagato, però resta nel tuo quartiere dormitorio, con la tua gang, ché poi la sbatto sui titoli del giornale con sotto il commento del bottegaio all'angolo che, esasperato, chiede il porto d'armi. Io non ti voglio sentire, né vedere. Ti apro l'ipermercato perché tu ti vesta, ti nutra e ti diverta come stabiliamo tra noi, in un patto di capitale. Violato solo da quell'aula scolastica in cui siamo costretti a tenere i nostri figli mischiati. L'altra faccia dello specchio dice che no, non ci vengo da te, signore dei cantieri, delle fabbriche, dei call center. Io porto la mia patria, la mia tribù qui e se posso ti urlo nella notte, ti vengo a prendere solo cose, per il resto non esisti, perché non ce l'ho il libro e la canzone tra noi, che mi parli di noi. Ho solo le mie canzoni, il mio urlo, la mia gente. La mia mall, dove ci vestiamo coi giubbotti firmati, gli stessi dei tuoi quartieri alti, gli stessi smartphone, in una recita di uguaglianza mercificata. La borghesia era l'approdo medio, il perimetro in cui ci si ritrovava, non solo aspettando il metrò, ma si è striminzita, quasi scomparsa.
Insomma, bello il gesto di Dani Alves, stimolanti conseguenze. Il miliardario in campo ha avuto prontezza di spirito. Solo non vorrei che chi ha lanciato la banana fosse un poveraccio spiantato, senza lavoro e con famiglia a carico, che va a sfogarsi nella messinscena tribale bianca dello stadio. Perchè allora in quella banana non c'è solo identità razziale da umiliare, purezza da difendere, ma tutt'altro. A anche se così non fosse, se il lanciatore fosse stato un impiegato di banca nazistoide, avete capito cosa intendo dire. Che la banana va mangiata tutta, fino in fondo.

Non solo un morsetto in favore di telecamera.

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