Ruspe a San Siro

La prima volta che ci entrai era il 6 novembre del 1983. Un derby. L'impatto che ti dà entrare in un canyon spiovente, immagino, o in una cattedrale durante la cerimonia più affollata di sempre. Da restare senza fiato. Mai vista tanta gente tutta assieme e tanta carta ai bordi del campo, il tumulto della folla esercitava un fascino irresistibile. Passai più tempo a guardare gli spalti gremiti che la partita.
All'epoca non c'era la copertura, e la nebbiolina del pomeriggio milanese ti entrava dentro, insieme all'odore dei fumogeni e dei panini farciti da casa. Quel tumulto intorno sembrava l'urlo di una giungla d'asfalto, il rito umano della metropoli. Mai una volta, tra la mia prima e tutte quelle seguenti, mi è capitato di restare indifferente ai vicini, o di risultare indifferente a loro. Si parla, si affina la battuta, visto che a un certo punto ci si abbraccerà, o ci si sconforterà insieme. La vita è una, siamo insieme, cazzo.
Di sera, poi, ogni sensazione decollava, sembrava di salire sull'astronave di Incontri Ravvicinati. Le luci artificiali, il tabellone, il tappeto sonoro ovattato. Una volta, in coppa, con il Colonia, diluviava. Non esistevano seggiolini, si stava pigiati come sardine, dal pomeriggio fino alla partita, almeno tre ore. Le mantelline avevano ceduto. Quando recuperai i panini dalla sacca che avevo sotto, erano poltiglia. Mi chiesi perché pagare per tutta quella sofferenza, e non ho mai saputo rispondere. I torciglioni a rampa del deflusso, il piazzale e la sua sagra, col viavai di gente strana; pigiami nerazzurri di flanella, cuffie all'uncinetto, sciarponi della nonna, personaggi vintage, gli accenti da tutta Italia, qualche freak, volti e corpi proletari che dentro non avevi notato, scorrevano fianco a fianco con gente in cappotto di cammello e cuscinetto sottobraccio. I giovanotti di ogni dove, ai tempi in bomber o giubbotto jeans striminzito, spesso a coppie, con la sciarpa avvolta alla vita. Qualcuno perfino in eskimo. Ti chiedevi, di ognuno, dove potesse abitare, come fosse casa sua. Milano, a noi da fuori, ci fa venire questa domanda. C'erano i giornali. La Notte. I tram a rotaia stipati oltre il principio dell'impenetrabilità dei corpi. Insomma, tutto un romanzo da scrivere, ognuno il suo. Negli anni, il colosso s'è trasformato, a partire da quella sua ossatura imponente, di puro stupore. Oggi appare lì, stratificato, in tutte le sue contraddizioni. Non rende come dovrebbe, dicono. Non risponde alle esigenze del turbocapitale. Questi cinesi, ovviamente, se ne fottono dei romanzi. Gli altri pure, gli americani. Pensano a una robina tutti seduti comodi e yuuu, col cappellino da baseball a sorridere alla telecamera del tabellone, dopo un giro nei negozietti chic dei vari piani. Sugli spalti in pochi ma buoni, e danarosi. È una guerra implicita contro la gavetta, il caffè Borghetti, le barbe sfatte, gli occhiali a fondo di bottiglia umidi di caligine, i denti marci, le urla sconnesse; e tutto quello che significava identità per i tanti operai trapiantati, milanesi della domenica. I cinesi ne sanno qualcosa, di 'sta roba delle metropoli, sradicamenti, trasformazioni, e - come tutti gli arricchiti - hanno urgenza di rimuovere le origini, cancellandole anche visivamente. Si sono trovati con gli altri, gli americani. Camicie bianche e comfort, qualche sciabolata a tappi pregiati nei privé dei contratti. Strisciate di plastica e bande magnetiche ad ogni dove. Forse hanno ragione loro. Ma c'è chi si terrà ben stretto il proprio torto, possono starne certi. Quella nebbiolina, i fumogeni, l'urlo di tante Milano.
La sciarpa della nonna.
La Chiesa, che di riti se ne intende, ha insegnato al mondo la stratificazione, il valore delle reliquie. Io la terrei viva, la cattedrale, secondo me alla lunga conviene, anche sulla via della seta.
Intanto, iniziamo a scriverne il romanzo…


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