Il drappo

Fabrizio Pambianchi era un militante umano, di quelli moderni e antichi insieme. Aquilano. Animatore di un posto chiamato CaseMatte. Non lo conoscevo, ma oggi vedo tutte le sue immagini. Lo trovi arrampicato sulla montagna, a piantare bandiere. Lo trovi nella neve, sott'acqua, con un trapano perforatore, sullo snowboard, sui pattini, sui prati, con un pennello a imbiancare, con un altro a dipingere. Lo trovi alla chitarra, a sognare di lanciarsi nel vuoto, lo vedi con un monaco buddista, con altri come lui di tutto il mondo, lo vedi in piazza a manifestare, scorgi una bandiera della Palestina, una dei No-Tav, lo vedi abbarbicato a tubi innocenti, a montare palchi, mettere altre bandiere. Artigiano totale, fisicità totale. Lo vedi tuffarsi in un fiume, riflettere nel gelo con un colbacco. Lo vedi in un video sul prato a cercare il vento con altri militanti. Lo vedi coi suoi tre figli, sempre in qualcosa da fare. Senti la sua frenesia, la passione che straripa, perfino esagerata. Poi, a un certo punto il flusso delle immagini rallenta. Vedi che ha messo quella foto di Monicelli avvolto nel drappo rosso, che ti guarda dal buio. In un'altra, il monolite nero di "2001, odissea nello spazio". Arrivi all'ultima immagine del suo profilo, un bimbo piccolo in braccio a un uomo. "Sei tu con tuo figlio?" gli chiedono. "No, è mio padre" risponde lui. Forse l'ultima cosa che ha scritto, prima di interrompere volontariamente questo suo intenso viaggio umano.
Non lo conoscevo, Fabrizio Pambianchi, ma forse un po' sì.

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