Megafoni

V=S/T. Velocità, uguale spazio fratto tempo. Aumentando la velocità dei processi di trasformazione, se tiriamo su muri a difesa degli spazi, ci esplode il tempo. Sembra questa la condizione della (sur)modernità. Mi sono appuntato due recenti fatti piacentini, in apparenza distanti tra loro. Il primo è la morte di Abdelsalam, il lavoratore travolto da un camion durante un presidio in una delle particelle impersonali della logistica. Quella tragedia locale contiene qualcosa di globale. La velocità, per esempio: valore in-sé, nella percezione neuronale cui ci ha indotto il web. Il camion doveva partire, la logistica esige scambio immediato, il lavoro è diventato come la comunicazione. Un magazzino di Amazon, per dire, non può permettersi discussioni. Nel sommo modello aziendale, quello dell'efficienza auto-indotta, il concetto stesso di sindacato – la rivendicazione – diventa impensabile. Il nuovo paradosso parmenideo è questo: devo recapitarti al più presto il megafono che ordini per la manifestazione nel mio cortile, ma non puoi fare la manifestazione, altrimenti il megafono non ti arriva. Un ricatto estensibile a tutta la civiltà della gig economy (googlate pure): soddisfare ciascuno, sempre, nascondendogli che lo stai rovinando. A tutti arrivano pannicelli caldi, ad alcuni i megafoni per le manifestazioni sbagliate, nei cortili sbagliati. Un'economia di ciclo che non ha più fondamento nella produzione e nei suoi luoghi, ma nel ciclo stesso. Il sogno del Capitale, dopo l'incidente di percorso marxiano: i diritti della merce sovrastano quelli del lavoratore. La velocità ha inglobato lo spazio, non è più il tempo della fabbrica. Questo, ovvio, ricade sulla città. Rileggo un vecchio articolo dell'urbanista Enzo Scandurra, dal titolo: "Il ritorno dei luoghi nello scontro tra culture". Ai tempi, il problema migratorio era meno accentuato, Scandurra indaga sul tema della casa; degli spazi pubblici; del conflitto tra politici e progettisti; politici e cittadini; ovvero sulla crisi della progettazione. In cui vede - non a torto - la crisi della democrazia tutta. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa, oggi, dei fatti di Goro e Gorino: le barricate di "cittadini" contro la decisione politica di usare un ostello per accogliere dodici donne migranti, con i loro bambini. Veniamo all'altro fatto piacentino: "Il libro giusto", rassegna di editoria alternativa cui ho avuto l'onore di partecipare, a Borgo Faxhall. Gli americani le chiamavano mall, ora spesso cattedrali nel deserto. Bell'idea, in quei giorni la mall nostrana sembrava un deserto di luci con dentro un'oasi di senso. Quando ho provato a scomodare Marc Augé – il nonluogo che diventa luogo – l'organizzatore Gabriele Dadati mi ha giustamente multato per abuso di concetto. Però, nel "libro giusto" francese si parlava proprio di surmodernità, così declinata: eccesso di tempo, eccesso di spazio, eccesso di ego. Forse il secondo punto, relativo allo spazio, Augé l'ha ceffato. Lo dimostra la chiusura della tratta balcanica della migrazione, i muri di Orbán, dei Serbi, dei Moldavi, dei cittadini di Goro, Gorino, quelli nelle menti dei più. Insomma, come vanno le cose. Per fortuna, camminando per Piacenza, dopo la rassegna, ho visto anche cose belle, nel quartiere, nel grattacielo dei Mille. Servizi, opportunità, mediazione sociale. So che ci lavorano tanti miei coetanei, educatori, psicologi. Conosco il laboratorio d'integrazione della scuola Alberoni. Ora sembrano spazi di resistenza, poi diventeranno di sopravvivenza, infine gli spazi del futuro. Spazi aperti, che progettano nuove velocità. Per un nuovo tempo. Lorenzo Calza P.s.: Nella notte di Goro e Gorino, ho visto bruti in mimetica con piccoli megafoni. Ne ho appena ordinato uno, su Amazon. Più grosso. 
(editoriale su "La Fabbrica dei Grilli")

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