New York è un genere letterario, un punto di vista. O’Henry, Henry Miller, Henry Gray, Ira Levine, Chester Himes, Ed McBain, Lawrence Block, Paul Auster e mille altri. C’è un assonanza, se li metti in fila. Ognuno col suo colore, scrive dalla sua finestra. Tutti a raccontare qualcosa di strano, impalpabile. Più di un posto, un luogo. Più di un luogo, un corpo. Il corpo-luogo della modernità. Dove ogni individuo almeno una volta si fa città, corpo collettivo, per poi tornare individuo, sinolo. E, in mezzo, la sua equazione: economica, matematica, esistenziale. Come ovunque, si potrebbe dire. No, è la risposta. Altro dato, comune a chi ha visto e raccontato NY. Quello è il simulacro creato l’occidente per esorcizzare la morte. Non con l’euforia fine a sé stessa, ma con una soave strategia. La solitudine si vive insieme. Il senso si disperde in mille sensi, per poi tornare uno, sinolo. Città. Co...