Cosa scrive il soldato Ryan

Lettera, Capitano Ryan Kelly, 22 anni, pilota degli elicotteri Black Hawk. Il 21 gennaio 2005 scrive alla madre da Camp Speicher in Iraq.

Cara Ma, le chiamano "missioni eroiche". E sono le peggiori.
È la body bag nel retro che rende il volo pesante. Nessuno scambio scherzoso tra gli uomini. Nessuna battuta sulla provenienza della carne servita in mensa, solo il rumore del volo, l'urlo dei motori, il rombo delle pale che graffiano l'aria, il crepitio della voce alla radio e l'eco dei propri pensieri sul ragazzo nella sacca, nel retro. Ieri ero al Toc (Centrale tattica delle operazioni), il luogo dove vengono programmate tutte le missioni. Di solito, dopo le missioni di volo, i piloti si aggirano qui con un'aria di soddisfatta indifferenza, come leoni che hanno appena divorato una zebra. Parlavo con l'ufficiale addetto alle operazioni, lamentandomi del fatto che i miei piloti non volano abbastanza, quando è entrato un tipo robusto da tre-portate-di-dolce-dopo-cena. Invece della solita andatura spavalda era inebetito. Gli ho chiesto cosa non andava. Mi ha detto che era appena tornato da una "missione eroica". Sarebbe quando si raccolgono i nostri uomini uccisi in combattimento. Mi ha detto di aver raccolto un ragazzo statunitense ucciso da un'autobomba. Aveva provato a scrollarsela di dosso come se fosse una missione qualunque, ma era ovvio che ne era disturbato. Qui le cose si sono fissate in una routine, come una vecchia arteria che da anni trasporta il medesimo sangue, stanco, lungo lo stesso stanco percorso. Pompa, sgonfia, pompa, sgonfia, sveglia, mangia, lavora, dormi, sveglia, su e giù, su e giù, BOOOM! Attacco di missili. Pompa, sgonfia, pompa, sgonfia... Se non fosse per le uniformi militari e il costante rumore degli elicotteri che decollano e atterrano, per i jet russi del tipo 747 che ruggiscono sopra le nostre teste a ogni ora del giorno e per lo stridore degli F-16 che vanno in cerca di qualcosa da uccidere; e per i razzi che tuonano, le esplosioni pilotate che fanno tremare i vetri e per il "toc toc toc" dei lanciamissili dei gunship Apache che con i loro cannoncini da 30 mm sparano nel mezzo della notte; e il caldo e il freddo, e le "missioni eroiche" e le body bags e lo stress, e i soldati carichi di problemi personali - presi da battaglie per la custodia dei figli combattute a tremila miglia di distanza, interventi alle ovaie, al cuore, al seno, al cervello, cancri, trapianti, divorzi, lettere da casa, nascite e morti, aborti e matrimoni sballati - e gli scorpioni e i ragni che si nascondono sotto i sedili del gabinetto e le mosche assurde grandi quanto api che ti ronzano intorno come dirigibili e la cosa peggiore: la stretta al cuore che non ti molla mai al pensiero di casa, la nostalgia della famiglia, sapere che la vita ti sta passando davanti come un treno merci, la nostalgia per qualcosa di bello, qualcosa di sicuro, per il trovarsi in un luogo sicuro, dove ci siano amore e buon umore e poesia e limonata fredda e lenzuola pulite, se non fosse per tutto questo l'Iraq sarebbe come casa. Quasi.

(Da "Donna di Repubblica". QUI trovate altre bellissime testimonianze di vita, morte e alta letteratura.)



Herbert Bohnert, "Soldiers on Troop Train" ('42)


Commenti

  1. Resta fra i misteri dell'umanità da sempre, come mai l'uomo cerchi in ogni modo di rovinarsi l'esistenza. Questa lettera insieme alle milioni di altre da quando esiste il servizio postale, sono li a dimostrarlo. Impietosamente, al di la di tutti i discorsi sulle guerre giuste o su quelle sbagliate.

    Mio padre mi raccontava sempre di suo padre, cioè mio nonno, che nella guerra del 15-18 stette via di casa per due anni e che quando ritornò ( non c'erano i telefonini...) lo fece a sospresa, a piedi da Vittorio Veneto fino ad una cascina della Valluretta dove riabbraccio la sua famiglia e si rotolava nell'erba con mia nonna.

    Allora i poveracci partivano senza nemmeno sapere perchè, senza nemmeno sapere che esisteva una Nazione di nome Austria.

    Oggi partono pensando di sapere perchè ( o forse non lo sanno nemmeno loro), ma il risultato non cambia. Tutti aspettano solo il ritorno.

    Restano sempre i potenti di turno a spiegare che è giusto.

    Oggnisanti.

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  2. firma post precedente

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  3. la nostalgia per qualcosa di bello, qualcosa di sicuro, per il trovarsi in un luogo sicuro, dove ci siano amore e buon umore e poesia e limonata fredda


    la nostalgia per qualcosa di bello...

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  4. Ehi, neo papà, sei ritornato con un gran post.

    Queste testimonianze sono di quelle che, ancora una volta, ci spingono a chiederci quale può mai essere il senso della guerra.

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  5. Ti ricordi Lorenzo, quando io te e i soliti noti, contestammo il grande Renzo Imbeni alla Camera del lavoro?

    Si parlava della guerra in Kossovo e dopo lui restò insieme a noi fuori nel cortile per spiegarci con passione le ragioni di quell'intervento. Mettendo, almeno me, in forte crisi.

    Stanotte su una delle mille reti di Ski ho visto un dibattitto di qualche mese fa, presenti Ingrao e Gino Strada.

    E mentre parlava Gino Strada, io mi sentivo in piena sintonia e ripensavo a quelle parole di Fassino: "io non sono un pacifista alla Gino Strada". Mentre io, ascoltando Gino Strada, mi sentivo pienamente un pacifista alla Gino Strada.

    Ma allora, alla fine questa benedetta sinistra in continua trasformazione, questa strada che abbiamo davanti col partito democratico, su questi temi, dove ci porta?

    Sento continuamente parlare, un cortocircuito di termini, guerra, pace, guerra per arrivare alla pace, missioni di pace, missioni di guerra, dalla parte dei terroristi o contro i terroristi.

    Ma non sento mai parlare delle ragioni di fondo, dei problemi del terzo mondo, dell'africa, dei motivi scatenanti delle guerre di domani.

    Il dibattito politico italiano ed internazionale sembra avvilupparsi dietro alcuni schemi, o di qua o di la, o contro questo o contro quello.

    Nessuno che prova a rompere questo schema.

    Nessuno.

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  6. Gli incontri importanti della vita si contano sulle dita di due mani . Renzo Imbeni fu uno di questi. Gli dedicai una poesia, quando morì. Chiesi di farla avere alla figlia. Spero le sia arrivata.


    Pacifista alla Gino Strada, sì. La mancanza di un'elaborazione ficcante sul mondo, vero. Però, con Fassino si torna a casa dall'Iraq. Io lo considero. Fassino ha anche detto che i gay non possono avere figli. Però, forse si arriverà a regolarizzare le unioni civili. Io lo considero.


    Forse, il Partito Democratico avrà bisogno di noi, più che dei nostri giudizi.


    Ricordo quello che ci chiese Imbeni, alla fine di quella discussione. "Durante la Resistenza, non avreste imbracciato le armi?". "Non so", gli risposi. Lui sorrise e disse. "Balle, tu saresti stato in prima fila".


    Ancora oggi non so.


    Però lo considero.

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  7. Puoi pubblicarla qui per favore o farmela avere in e-mail.


    Grazie


    Bado

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  8. 23 febbraio 05


    A Renzo Imbeni


    Io amo a te

    Ti disse luce

    baffinuto

    Da mettere in crisi guareschi

    Quello

    Apolide

    Trinariciuto

    respiravi meglio

    distrafficando

    Sorriso aperto

    D’Emilia



    Polenta e cervello

    Di case e di palazzi

    Colli e dossetti

    Periferie

    Portici rossi

    Fruttivendoli e mercati

    Sazi e disperati

    E biciclette

    fiero

    Nebbia e violenza

    Salta il modello

    di bomba

    E d’auto bianca

    Che diedero mano

    Ad incendiare piano padano

    Im pegno

    Im pista

    Im lista

    Im bene

    pubblico

    Cuore di guerra fredda

    Pannicello caldo

    Di tanti noi


    Sindaco

    Oh, sì, d’indaco

    pezzo d’iride tricolore

    Di buona specie

    Di ceppo dolce

    trippa e vino


    Non ci si accorge

    Lo metti in disparte

    Poi manca


    Io amo a te

    Ti disse luce

    Tu manchi me

    M’imbuio io

    figlio d’europa

    Bello,

    Sindaco,


    fratello mio

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