Tralfamadoriano

Arrivai a Genova l'anno della morte di Fabrizio De Andrè. Il Comune lo mise in filodiffusione. Che emozione camminare per Via del Campo, e poi  lungo quel serpente di odori, sapori e umanità che finisce in Via Prè, con la musica nelle orecchie.
Non so se avete in casa un libro di Vonnegut, spero di sì. Altrimenti, oggi è un buon giorno per comprarlo. Se ne avete, pescate a caso. Aprite e leggete ad alta voce
una pagina. Magari l'ultima, che non c’è il problema di chi è l’assassino o altre sorprese rovinate. Semplicemente, lui sapeva come scrivere un finale. E anche un incipit. E anche quello che ci stava in mezzo. Diciamo che il finale è una buona eco di tutto il resto.
Io l'ho fatto subito, appena saputo. Mi è venuto in mano “Un Pezzo da Galera”.


    "Mia nuora e i miei nipoti trovarono naturale e facile, a quanto pareva, accordarmi gli onori dovuti a un nonno che, in fin dei conti, era un caro e gentile e azzimato vecchietto. Agli occhi di quei bambini io ero una specie di Babbo Natale.
    Mio figlio fu un trauma. Aveva un aspetto dimesso e malsano e infelice. Era basso come me, e quasi altrettanto grasso quanto la sua povera madre negli ultimi tempi. Io avevo ancora quasi tutti i capelli in testa, lui invece era calvo. Doveva aver ereditato tale calvizie dai progenitori materni, ebrei.
    Fumava a catena sigarette senza filtro. Tossiva un bel po’. Aveva il vestito crivellato da bruciacchiature. Lo guardai, mentre si ascoltava il disco, e vidi che era tanto nervoso che aveva tre sigarette accese contemporaneamente.
    Mi aveva stretto la mano con la desolata correttezza di un generale tedesco che si arrende, mettiamo, a Stalingrado. Ero ancora un mostro per lui. Era stato indotto a venire nonostante non ne avesse voglia da sua moglie e da Sarah.
    Peccato.

    Il disco non cambiò niente. I bambini, rimasti alzati oltre l’ora solita, ciondolavano dal sonno.

    Quel disco intendeva rendermi onore: far sapere, a chi già non lo sapesse, che razza di giovane idealista ero stato. La parte in cui, accidentalmente, tradivo Leland Clewes, denunciandolo come ex comunista, non c’era. Forse era sull’altro lato, che non ascoltammo.
    Soltanto le mie ultime parole mi sembravano molto interessanti. Le avevo dimenticate.
    Il deputato Nixon mi aveva chiesto come mai uno come me figlio di immigranti che erano stati ben accolti in America, uno che era stato trattato come un figlio e mandato all’Università di Harvard da un capitalista americano si fosse poi mostrato tanto ingrato verso il sistema economico degli Stati Uniti.
    La risposta che gli diedi non fu tanto originale. Niente, in me, è mai stato originale. Gli ripetei quello che il mio idolo di un tempo, Kenneth Whistler, aveva detto in risposta a un'analoga domanda, tanto, tanto tempo prima. Whistler era testimone a un processo contro degli scioperanti accusati di violenze. Il giudice, incuriosito sul suo conto, gli chiese a un certo punto come mai un uomo come lui, istruito, di buona famiglia, si fosse aggregato alla classe operaia.
    La mia risposta (rubata) a Nixon fu la seguente: “Per via del Sermone della montagna, signore”.
    Ci fu un lieve, gentile battimano quando i presenti alla festa si accorsero che il disco era finito.
    Addio, addio.”







Ad alta voce, mi raccomando.







Commenti

  1. ad alta voce...

    ho recitato le parole, sia pure in modo sommesso :-)

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  2. Beh, in qualche modo, lui era sommesso.

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