Buie illuminazioni.
Non avevo mai visto "La guerra dei mondi", influenzato dalla critica che
l'aveva stroncato. Come spesso capita, sbagliavo. Spielberg è un
grandissimo intellettuale contemporeneo, intuitivo, mai a tesi. Questo
film mi ha fatto male, perché ho sentito la sua sofferenza nel guardare
il tempo. Come se gli si fossero spente le favole, i siparietti, e il
meccanismo del cinema incarnasse quello di un'epoca in cui sta crollando
la sovrastruttura, lasciandoci però soli, con la struttura.
Che è semplice, all'osso, buia, crudele, senza motivazioni. Le cose
accadono, il male esplode. E il bene non passa più attraverso il nostro
sforzo, se non quello di sopravvivere. Che ormai è un compito
individuale, del proprio ristretto recinto, nel bunker. C'è un senso di
resa, in questo. L'alieno di Spielberg degli anni speranzosi arrivava
nell'astronave collettiva, atteso da un collettivo illuminato, con un
dialogo in musica dell'universo. Poi entrava nella famiglia, nel cuore
della società, ammalandosi di noi e curandoci nel dialogo tra culture,
nel tocco illuminato. Ora il confine è l'abisso, l'avamposto dell'abisso
cova nelle nostre viscere, sotto i nostri piedi. Ne siamo ignari, e
arriva. Come un aereo su un grattacielo, come un'orda nera che ci appare
all'improvviso, sterminando. Nessun tocco, l'illuminazione è un raggio
distruttivo. Ci si trova a bocca spalancata, senza fiato. Qualcosa poi,
forse, provvederà. Non la grandezza dei cieli, dello spirito, delle
musiche sontuose dell'happy ending. Qualcosa di piccolo, infinitesimale,
che ora ci sfugge.
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