Grande intervista

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Enrico Vanzina: «Mio padre Steno? Un intellettuale che non se la tirava (e avrebbe amato i cinepanettoni)»

Una mostra celebra il regista e qui il figlio racconta lui e i grandi con cui lavorò: Sordi quando finse un braccio rotto, Totò che viveva da principe, Longanesi col quale scappò dai tedeschi, Fellini che lo faceva volare, Vianello che faceva di tutto per non sapere i risultati delle partite. E poi, Brigitte Bardot, Sophia Loren. E certi clan del cinema che, diversamente da oggi, non si odiavano fra di loro...

di Candida Morvillo

Diceva Mario Monicelli che tutto quello che sapeva del cinema l’aveva imparato da Steno. Insieme, erano stati co-registi di otto film, a partire da Totò cerca casa, anno 1949. Steno, all’anagrafe Stefano Vanzina, nasceva esattamente cento anni fa, il 19 gennaio 1917. Ha sceneggiato 150 film e ne ha diretti 75, quasi sempre comici. Portano la sua firma Alberto Sordi che in Un americano a Roma fa: «Maccarone m’hai provocato e io ti distruggo: mo’ te magno», o Totò col suo «Ma mi faccia il piacere», rivolto all’onorevole Trombetta. Steno ci ha fatto ridere, sorridere, riflettere, fino alla sua scomparsa, il 12 marzo 1988, a 71 anni. Tutti i grandi di un’epoca hanno lavorato con lui: Walter Chiari, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, Peppino De Filippo, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Bud Spencer, Johnny Dorelli, Enrico Maria Salerno per il quale inventò i «poliziotteschi», e negli ultimi anni, Diego Abatantuono, Renato Pozzetto, Enrico Montesano. Ha messo in scena donne che hanno fatto sognare: Sophia Loren in Un giorno in pretura, Marisa Allasio in Susanna tutta panna, Monica Vitti in Amori miei Tango della gelosia, Sylva Coscina, Edwige Fenech, Ornella Muti, Brigitte Bardot... (sopra il titolo, Steno, in una foto dall’archivio privato di famiglia. Sotto, nella foto Poletto, Marisa Allasio e German Cobos sul set di «Susanna tutta panna»).
Il centenario della nascita sarà ricordato con una mostra di foto, video e carteggi alla Galleria Nazionale D’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dal 12 aprile al 5 giugno. «Steno, l’arte di far ridere», curata da Marco Dionisi e Nevio De Pascalis, per la Fondazione Cinema per Roma presieduta da Piera Detassis, è un viaggio nella nostra storia, non solo del cinema perché Steno fu anzitutto un intellettuale, amico di Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Leo Longanesi e molti altri, coi quali spesso collaborò. I due figli sono i celebri fratelli Vanzina: Carlo, regista e produttore, ed Enrico, scrittore e sceneggiatore, coppia a lungo maltrattata e infine riabilitata dalla critica. L’appuntamento con Enrico è nel suo studio di Roma. Libri antichi alle pareti, un enorme tavolo ovale sepolto sotto copioni, foto, faldoni, appunti.
 Enrico, qual è il primo ricordo che ha di suo padre?
«Una scena riferita, ma è come se la vedessi. Alla Clinica Quisisana di Roma, era appena nato mio fratello Carlo. Io, due anni e mezzo, arrivo tenuto per mano da papà e con un piccolo orso in braccio per il fratellino. Poi, tutta la nostra infanzia è documentata nei filmini che nostro padre girava con la Bell & Howell, la macchina da presa senza sonoro con cui fu ripreso lo sbarco in Normandia. Ci siamo noi a casa e noi nel backstage dei suoi film, con Sordi, Totò, Walter Chiari…».
Il suo filmino preferito?
«Io e Carlo bambini con gli orecchioni e le cuffie d’ovatta sulla testa. La cinepresa ci gira intorno in tondo, è un pezzo buffissimo. Un altro è un pranzo della domenica nella villa sull’Appia di Dino De Laurentiis, con Silvana Mangano stesa sulla piscina hollywoodiana, papà, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Kirk Douglas che stava girando un film a Roma, e tutti i bambini De Laurentiis».
Il quadro nell’ingresso è un ritratto di suo padre?
«È di Natino Chirico, fatto su una foto scattata sul set di Un americano a Roma e ha il senso di leggerezza che ispirava papà: era minuto, pesava forse 48 chili, diceva che nella vita devi scegliere un peso e rimanerci. Quando mostrava agli attori i movimenti di scena, si muoveva come un ballerino. Enrico Montesano sosteneva che, quando s’arrabbiava, saltava, si sollevava da terra e rimaneva magicamente a mezz’aria. La cosa strana è che in un racconto di Piero Chiara ambientato sul Lago Maggiore, dove papà è cresciuto, c’è un prete che quando si arrabbia sembra che voli».
Fra i primi incontri di suo padre a Roma, quando era disegnatore e battutista nella rivista satirica Marc’Aurelio, c’è quello con Federico Fellini.
«Fu papà, che era anche segretario di edizione, ad assumerlo. Fellini portò una cartella di disegni e lui li trovò bellissimi. Diventarono grandi amici. S’incontravano e Fellini, che era grosso, lo abbracciava e lo buttava per aria, chiamandolo Stenino. Quando papà è morto, stavano scrivendo insieme un film mai uscito: Le ciccione volanti, un omaggio agli anni del Marc’Aurelio, vissuti con Furio Scarpelli, Age Incrocci, Marcello Marchesi, Cesare Zavattini, Ettore Scola… Papà da giovane era così brillante che fu subito preso sotto l’ala da Mario Soldati e Leo Longanesi. Quando Roma fu occupata dai tedeschi, scapparono tutti e tre a Napoli, assieme con il pugile Enzo Fiermonte. Lì, papà faceva alla radio l’imitazione del duce, e mia madre che l’ascoltava di nascosto, se ne innamorò senza conoscerlo» (sotto, Totò e Aldo Fabrizi diretti da Steno in «Guardie e ladri», nel 1951).
Risale ad allora il diario pubblicato postumo da Sellerio, «Sotto le stelle del ’44».
«Purtroppo, non abbiamo mai ritrovato il seguito, in cui raccontava del tempo speso con Benedetto Croce e Curzio Malaparte. Quella fuga è la stessa stata narrata da Mario Soldati nel Viaggio in Italia. Papà era prima di tutto un intellettuale e il bello della sua generazione era che gli intellettuali condividevano il tempo, la vita, il lavoro. Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati sceneggiarono il suo Guardie e Ladri. E lui era amico di registi che facevano film diversi dai suoi come Michelangelo Antonioni. Oggi, sembra impensabile. Oggi, ci sono i clan del cinema, tutti se la tirano, si parlano alle spalle, certi neanche si salutano e sembra ci sia uno steccato fra chi fa cinema d’autore che non guarda nessuno ma fa chic e chi fa cinema che incassa e quindi è di serie B».
Che cosa è successo ai cineasti?
«Quelli della generazione di mio padre erano geni, ma erano anche persone rimaste semplici. Un giorno, Billy Wilder va a Cinecittà, dove Bernardo Bertolucci girava Novecento e gli chiede quante settimana di lavorazione fa. “Ventidue”, risponde Bertolucci. E Wilder: “Lei dev’essere molto più importante di me, a me per l’ultimo film hanno dato solo sei settimane”».
Vivevano il cinema come un mestiere qualunque?
«Papà faceva il regista senza darsi importanza, come se fosse un impiegato, un avvocato. Usciva in giacca e cravatta e tornava a casa in tempo per insegnare a noi bambini la musica, la letteratura. Frequentava la gente di cinema, ma perché erano amici, non per autocompiacersi di stare in quel mondo. Coi De Sica erano talmente intimi che, quando papà morì all’improvviso, Maria Mercader ci prestò per qualche mese la tomba di famiglia» (sotto, Alberto Sordi legge il copione di «Un giorno in pretura» con il regista Steno, nel 1953).
Che infanzia è stata la sua?
«Papà portava me e mio fratello ovunque, sui set, in viaggio, a cena dagli amici. E appena arrivavamo in una città, andavamo a visitare un museo. La pittura, sosteneva, è indispensabile per capire il mondo. Con lui, da piccoli, abbiamo visitato il Prado, il Louvre, la National Gallery. Ovunque, aveva amici intellettuali. A Londra, Gabriele Baldini e Natalia Ginzburg, a Parigi il pittore Orfeo Tamburi. Era una vita unica per due ragazzini, che viaggiavano, imparavano le lingue. Quando facevo la tesi a Rio, mi venne una febbre terribile e papà mi spedì a curarmi a casa di Antônio Carlos Jobim, che era un fondatore della bossa nova, oltre che un mio idolo. Quando ero piccolo, a Madrid, sono stato a casa del torero Luis Dominguin. E, a Parigi - con Totò - dall’attore Francis Blanche, dove abbiamo conosciuto le sue due mogli: una anziana e simpatica, l’altra giovane ma antipatica. Totò sentenziò: “Questa è la vita, se trovi una moglie bella, è di sicuro stronza”».
Totò ha girato con suo padre 14 film, com’era?
«Scisso. Nella vita, tornava a essere il principe de Curtis, elegantissimo. Si muoveva solo in Cadillac. Ma le rare volte che guardava “i giornalieri”, il girato di giornata, rivedendosi, si sbellicava dalle risate. Il misurato principe de Curtis era il primo fan di Totò».
Anche lui, come suo padre, è stato rivalutato dopo la morte.
«Totò in vita era bistrattato e ne soffriva. La sera che ricevette un premio in un teatro di Napoli, papà scrisse un pezzo molto malinconico per Il Giornale di Indro Montanelli. Scrisse che della gente di cinema era presente solo lui e che quella sera Totò pianse. Per fortuna, la Tv l’ha vendicato. Il tempo è galantuomo, diceva papà».
È vero che Totò improvvisava molto?
«Questa è una leggenda. Provava tantissimo. Le sue scene erano tutte scritte. Però è vero che con attori come Totò e Sordi papà non dava mai lo stop, perché sperava sempre nel guizzo finale spontaneo. In Totò e i re di Roma, c’è una scena in cui il più giovane Sordi parla e Totò non dice niente. Ma mentre la giravano, Totò si mise a sputare sul collo dell’altro: aveva capito che il non famosissimo Sordi poteva rubargli la scena».
Anche Sordi era scisso?
«Lui era come nei suoi film: dispettoso, buffo, borghese, un po’ conservatore. Un giorno, si presenta al Petruzzelli di Bari per girare la famosa scena di Polvere di Stelle con Monica Vitti che canta ‘Ndo vai se la banana non ce l’hai. Centinaia di comparse in platea aspettano di salutarlo, ma lui ha il braccio fasciato e appeso al collo. Dietro le quinte, papà che era aiuto regista di Dino Risi, gli chiede che s’è fatto e lui, sbrogliando le bende: “Niente. Ma mica potevo da’ la mano a tutti ‘sti zozzi?”. La sera, Sordi veniva a casa e si metteva al pianoforte con Piero Piccioni, era di famiglia. Ed era bravissimo a dare vita a tutto quello che vedeva. Quando mio fratello Carlo gli chiese che pensava dell’esordiente Roberto Benigni, lui balzò in piedi, spalancò braccia e bocca e disse: “Sembra uno che esce dalla scatola sulla molla! Mi piace”. Quando gli feci da interprete con Andy Warhol fu straordinario» 
Che c’entra Andy Warhol?
«Eravamo a cena da Susanna Agnelli a New York, con papà, Antonioni e altri. E c’era Warhol, che volle intervistare Sordi per Interview. Io feci da interprete. Sa… L’America è la patria dell’Actor’s Studio, sono fissati col metodo Stanislavskij… Warhol chiede a Sordi come fa a cambiare entrare e uscire dai personaggi. E lui: “Come faccio? Mi metto il cappello da pompiere, me lo tolgo. Mi metto il cappello da vigile, me lo tolgo. Ma sempre io sono”. Era l’abisso fra Hollywood e Cinecittà, ma anche il ritratto dei grandi attori di una volta: Sordi interpretava dei personaggi ma era sempre lui, i giovani attori di oggi restano loro, senza interpretare i ruoli».
Questa è feroce.
«Io e mio fratello non abbiamo potuto fare la grande commedia di nostro padre perché non ci sono più gli attori. I bravissimi dei nostri tempi, Benigni, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Francesco Nuti si sono fatti i film da soli. Spesso, noi abbiamo dovuto fare i film di gruppo per carenza di interpreti».
Che cosa ricorda, lei, di Ennio Flaiano?
«Avrò avuto tredici anni il giorno in cui Age Incrocci gli disse che da grande volevo fare lo scrittore. “Forza, fai una domanda a Flaiano”, mi diceva Age, e io ero tutto rosso di vergogna. L’unica domanda che mi venne fu: “A che cosa serve scrivere?”. E Flaiano: “A esorcizzare la morte”».
Altri incontri ad alto impatto con scrittori famosi?
«Con Truman Capote. Ma lo conobbi io. Ero ragazzo, facevo l’aiuto regista in un film a New York e vivevo vicino all’aeroporto, da un’hostess con la quale ero fidanzato. La mattina alle cinque, prendevo un taxi collettivo per andare a Manhattan sul set. Un giorno, salgo e c’era lui, il più grande scrittore vivente. Gli dico che ero un giovane italiano che voleva scrivere libri. Dopo, sul set, ricevo un suo biglietto con l’invito a una cena. Vado, c’erano attori, attrici, Andy Warhol con la sua Polaroid. Capisco che Capote aveva un debole per me. Gli dico “a me, piacciono le donne”. E lui: “A me piace Paul Newman”»
Longanesi, altro amico di suo padre, com’era?
«Per papà era l’uomo più intelligente mai conosciuto. Era detto “carciofino sott’odio”, per il suo umorismo amaro. Produceva battute, paradossi, a getto continuo. L’unica volta che ho visto piangere mio padre fu il giorno della sua morte. Quel pomeriggio, si chiuse nel suo studio e pianse per cinque ore di seguito».
Con suo padre, lei ha conosciuto tutte le attrici di un’epoca. Silvana Mangano, poi Mariangela Melato, Monica Vitti…
«Silvana era un’amica, ma era una donna difficile, distante. Di Monica papà era pazzo e lei fu molto generosa con me: quando ero ancora giovane mi chiese di partecipare alla sceneggiatura di un suo film con Keith Carradine, me ne stetti tre mesi a Parigi a scrivere, fu bellissimo. Con la Melato, che aveva qualche anno più di me, papà girò La polizia ringrazia La poliziotta e io mi presi una cotta per lei».
Cotta ricambiata?
«Posso dire solo che fu un momento strano. Una cotta me l’ero presa anche per Marisa Allasio quando girava Susanna tutta panna».
Fatti i conti, lei aveva otto anni.
«Io e Carlo siamo cresciuti fra donne bellissime. Tant’è che mio fratello ha sempre avuto un occhio pazzesco per scegliere le attrici. Mamma racconta che, quando papà finì di girare Mio figlio Nerone con Gloria Swanson e la più giovane Brigitte Bardot, fummo invitati a casa della Swanson che a noi bambini regalò delle splendide corazze da antichi romani . Carlo, che aveva cinque anni, non voleva ringraziare. Mamma continuava a ripetere: “Carlo, ringrazia. Carlo, ringrazia”. E lui muto. “Ringrazia!”. E lui: “No, voglio la Bardot”» (sotto, Steno sul set di «Mi faccia causa» con Stefania Sandrelli, nel 1984) .
Com’è Sophia Loren?
«È la più professionale. Carlo ha lavorato in un suo film a New York e racconta che si alzava alle quattro e mezzo per fare tre ore di trucco ed essere la prima pronta sul set».
Tognazzi e Vianello?
«Simpatici come in scena. Da piccoli, papà ci portava a casa di Vianello a vedere il secondo tempo delle partite. Lo davano in differita e facevamo di tutto per riuscire a guardarlo senza sapere il risultato. Lui staccava i telefoni per paura che qualcuno, chiamando, dicesse com’era finita».
Marcello Mastroianni?
«Sua figlia Barbara è stata la mia prima fidanzatina. Avevamo io 15 lei 14 anni e, in quella famiglia con tante donne, Mastroianni era tutto felice che fosse arrivato il figlio di Steno. Mi portava da solo nella loro casa di Lucca, diceva “stiamo un po’ fra uomini”».
Qual era il primo talento di suo padre?
«Guardava sempre la realtà dal lato buffo. Da piccolo, sul comodino, teneva le statuine di Chaplin e dell’eroe del cinema muto Ridolini. Aveva un senso dell’umorismo comico e si accostava ai film drammatici con pudore. Anche se, per esempio, il finale di Guardie e ladri, con Totò che cerca di convincere Aldo Fabrizi a portarlo in galera, è una scena poetica. Ed è umoristico con un retrogusto drammatico il Diario futile rimasto inedito perché lo abbiamo scoperto dopo la sua morte, che porteremo in mostra a Roma. È un’opera pop in cui, durante la guerra, papà – con gli umoristi Metz e Marchesi — incollava ritagli di giornale, vignette, appunti e foto, precorrendo il décollage di Mimmo Rotella e il linguaggio di Andy Warhol».
Suo padre ha fatto in tempo ad assistere ai primi vostri successi: Vacanze di Natale, Sapore di Mare, Eccezzziunale… veramente.
«Fu una soddisfazione. Non voleva che facessimo cinema, temeva la precarietà del mestiere. Diceva: fai quattro successi e tutti ti acclamano, poi sbagli un film e sei uno stronzo. Era contento perché avevamo successo di pubblico e per lui il rapporto col pubblico era tutto. La volta che ci carezzò più teneramente fu la sera che cenavamo all’Augusteo e Anna Amati, la moglie del proprietario del cinema Adriano, ci portò un regalo perché Eccezzziunale… veramente aveva battuto tutti i record della sala» 
Ha fatto in tempo anche a leggere le critiche terribili che vi affibbiavano.
«Mai, per fortuna, l’ignobile parola “cinepanettone”. Ma era dispiaciuto perché, già all’inizio, la critica ci snobbava. Per lui Sapore di mare era un capolavoro, non si capacitava che non ci avessero dato il David. Anche lui non era amato dalla critica ideologizzata. Non era di sinistra, ha sempre votato liberale. Però era contento perché grazie a noi non ha perso il rapporto con i giovani del cinema. È stato lui a lanciare e scoprire Renato Pozzetto, Diego Abatantuono ed Enrico Montesano».
L’ultimo film, Animali metropolitani, uscito postumo, ebbe una circolazione ridottissima. Perché?
«Era troppo avanti. Era popolato di camionisti, ragionieri, vigili, ormai diventati bestie».
A rivederlo nella Roma di oggi che effetto farebbe?
«Farebbe pensare anche a certi romani odierni che sono molto peggiorati. Sono meno simpatici, hanno puntato più sui difetti che sui pregi. Ma Roma si salva, risorge sempre. Solo che non basta un sindaco, servono appunto anche i romani».
Se Steno fosse vivo, oggi, che film farebbe?
«Di sicuro con un attore giovane, ambientato nel mondo dei giovani, forse del web. Saprebbe cogliere l’umorismo di quest’epoca digitale. Da 15 o 20 anni, a parte Checco Zalone, nessuno racconta i giovani, se non quando si piangono addosso. Ma chi sono davvero? Come ridono? Manca un regista di quella generazione, com’era stato Gabriele Muccino ai tempi de L’Ultimo bacio. Papà è sempre stato per i giovani. Quando Sergio Leone, che era suo segretario di edizione, gli portò lo sconosciuto Carlo Verdone chiedendogli se voleva lanciarlo, papà lo incontrò e disse che era talmente bravo che doveva dirigersi da solo. Fu così che Carlo prese coraggio e fece Un sacco bello» (sotto, i fratelli Vanzina, figli di Steno. Da sinistra, Enrico, 67 anni, e Carlo, 65).

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