Shane

Il western cult di George Stevens (1953) è un meccanismo perfetto, ogni volta ci ricasco. Ogni volta a commentare quanto era basso Alan Ladd, insopportabile il bambino, dinocolato Jack Palance, brutto Van Heflin, gelidina Jean Arthur. Eppure resti incollato: la continua sensualità esposta per allusione, la minaccia interna incombe sulla famiglia come quella esterna sui contadini. Le ferite della guerra nordisti-sudisti sempre riaperte, curate, cicatrizzate da un'armonica in un funerale. L'eroe costretto a riprendere le armi suo malgrado. I cattivi in fondo erano uomini liberi, hanno le loro antiche ragioni, e perdono perché non sanno fare i conti con le novità, i recinti. Il mondo cambia, cambiano i protagonisti economici, quindi storici. Tutte le pedine del western classico vengono giocate fino al finale, con scazzottata tra i buoni - sotto sotto competitiva rispetto alla donna - e la sparatoria nel saloon, in cui l'eroe buono e il villain, il cattivo, diventano la stessa cosa. Uno dei due può vincere il duello, ma sono entrambi i perdenti della Storia. La famiglia si ricompatta per un pelo, per sottrazione, per esclusione. Il loner si allontana di sua volontà, solo e ferito. E io incollato fino all'urlo finale del bambino verso il cavaliere, l'eco nella valle solitaria: «Shane! Shane!»

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