Amala

Ricordo che mi suonava bene il nome, sarà che sentivo cantare l'Internazionale alle Feste de l'Unità e procedevo per assonanze. Poi vivevo in quella stessa nebbia che portava a Milano. I colori del cielo e della notte, consoni al segno zodiacale. Insomma, la sentivo nell'aria, era destino. Ricordo l'impatto di San Siro, ero in prima media, un muro di gente a riscaldare l'inverno, due anelli arrampicati verso il cielo come un'astronave. Ricordo anni dopo quella volta che scavalcammo, con un ridicolo fumogeno nelle mutande, simbologia troppo facile di adolescenziale ricerca d'identità. Unico comunista in curva, disegnai anche gli adesivi dei Forever Ultras, e me ne vergogno. La neve, il liquorino caldo. I ragazzi a torso nudo di Gallarate, Rho, Cesano. Tutto l'hinterland milanese che scaricava lì i suoi risultati urbani, la sua maschera dura. Girava droga, le donne erano altro, accettate in quanto uome. Gli scontri nel piazzale di San Siro erano di impronta napoleonica, data la vastità del campo di battaglia. Nella nebbia, solo la sciarpa faceva da navigatore. Il deflusso notturno dopo le partite di coppa, i tram zeppi di una milanesità che sembrava ancora anni Sessanta, ambrosiana ma spuria, celentanica, e gli accenti di tutta Italia, invece, diretti placidamente verso i pullman. Mi chiedevo come facesse un siciliano a sobbarcarsi quel viaggio, perché arrivava a tifare Inter. La risposta era nelle fabbriche, nei loro tentacoli ferrati. Ricordo un arbitro sovietico che ci concesse un rigore, contro il Colonia, credo. Un omino vestito da Fantozzi col basco e il cuscino, appeso fuori dal tram nella pioggia, gridava alla transumanza: "Visto? L'arbitro era un compagno! T'è vist, il compagno?!…" C'è un rito nella vita, sempre quell'irrazionale. La passione per gli svolazzi di Zenga, entrai in porta nella Turris. Che era nerazzura e si giocava a ping pong grazie a un prete sui generis. Passa la vita, ma l'Inter è garanzia. Mai niente di banale e scontato. Con l'Inter c'è il travaglio, la sofferenza continua, sempre in bilico. Amala, ti dice l'inno, è pazza. Ti lascia, la ritrovi, ti tradisce in tutto, sempre. Niente di meno italiano, niente di più italiano. Tre anni fa mi portò davvero alla pazzia, roba da psicologo, per colpa di un portoghese genio della comunicazione e dell'empatia guerriera. I miei figli assistevano sgomenti. Poi ci ridevano, a vedere un quarantenne appeso a un lampadario. Ora la prende un indonesiano, i bauscia mollano. Ricorda vagamente Takeshi Kitano, ha un nome tipo il dio del tuono, ma è tinto come il Berlusca. Lo fisso affascinato, come si può essere incuriositi da un serpente esotico. Tanto il simbolo è un biscione. E poi la globalizzazione vuole così, io non so cosa accadrà all'irrazionale che è in me, al rito. Al lontano interfaccia di una vita, l'identità traslata della stupidera italica. So che quel nome, Internazionale, per me avrà comunque un suo senso. O almeno, mi sforzerò di darglielo, in onore di quei colori.
Il cielo, la notte.
 


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